Dentro i “cenci” alla moda, c’è il monaco?


Antonio Dovico – Nel numero 37 di questo Notiziario è apparso un  articolo non firmato dal titolo: “L’abito non fa il monaco?”.

Il pezzo è mio e sono costretto a riconoscerne la paternità perché la discordanza tra il testo consegnato e quello apparso su Ecclesia  sembra minima, ma è decisiva ai fini dell’autorevolezza che intendevo conferire all’articolo. Infatti, in tempi di relativismo galoppante come quelli attuali e del modello di divinità che ciascuno di noi si fa, per adattarla ai nostri gusti e convenienze, tutti ci sentiamo depositari della verità, e quindi autorizzati a proclamarla. Ma quante saranno le verità: una; cento; mille? Io credo in una sola Verità, e in essa intendevo attingere per rendere inconfutabile la mia argomentazione. Sotto il titolo avevo scritto,  ben evidenziato tipograficamente:

 

“Farai vesti sacre a tuo fratello Aronne, in gloria e decoro”. Esodo 28: 2

 

Quindi, parola di Dio, non delirio di uomini.

Non trovando questa citazione biblica sul Notiziario, ho masticato amaro per lungo tempo ed ero quasi vicino a rassegnarmi, quando la lettura di un illuminante articolo sull’argomento, di don Claudio Crescimanno, sul Timone di novembre, mi ha spronato a ritornare sull’argomento.

E ci ritorno umilmente convinto che non è giusto sottrarmi al compito perché Dio,  per la seconda volta, mi spinge a far rifulgere la sua volontà espressa migliaia di anni fa, e rispettata fedelmente fino al Concilio Vaticano Secondo. La prima volta mi ha messo sotto gli occhi il versetto che mi ha dato il la, quando avevo in mente di sedermi a scrivere su tutt’altro argomento.

Se qualcuno vuole obiettare che Gesù, col Nuovo Testamento ha obliterato il vecchio, si ricreda, perché neppure il Concilio ha messo in naftalina l’abito religioso. Ciò si evincerà leggendo parzialmente l’articolo “L’ABITO RELIGIOSO”, appunto di don Claudio.  Eccone  alcuni brani.

 

La crisi dell’abito religioso

 

In realtà ciò che si indossa è il primo”linguaggio” con cui si dice ciò che si è […] “Scusi , lei è un prete?”. Capita alle volte, che per curiosità o per necessità, qualcuno debba accertarsi in questo modo dell’identità di un “tizio” incontrato per caso e che alcuni indizi fanno supporre essere un ministro di Dio, […].  Sino a qualche decennio fa, quando preti, frati e suore apparivano inequivocabilmente tali, una siffatta domanda sarebbe stata assolutamente superflua. […] almeno stando alle norme ufficiali, ad esempio il Codice di Diritto Canonico, che prescrive: “ I chierici (cioè diaconi, preti e vescovi) portino un abito ecclesiastico decoroso…” (can.284) e i religiosi portino l’abito dell’istituto… quale segno della loro consacrazione…” (can. 669). E per quel che riguarda casa nostra, i vescovi italiani, già all’indomani del Concilio Vaticano II, avevano stabilito norme tassative, mai ritrattate, nelle quali si prescrive che sacerdoti e religiosi indossino la veste talare o l’abito proprio del loro Ordine in tutte le funzioni del ministero e in generale nel proprio ambiente di vita, cioè nel territorio della parrocchia o della casa religiosa, nell’ambito della predicazione, dell’insegnamento e delle altre attività abituali; è consentito invece l’uso del clergyman, nei viaggi  e nelle attività estranee all’esercizio del ministero. […]  Nel 1976 la Congregazione per i Vescovi […] ricordava che l’autorizzazione ad un adeguamento dell’abito religioso non può in alcun modo trasformarsi in un abbandono di esso, che resta importante per tutti i consacrati indossare una divisa che esprima la loro condizione e la renda chiaramente evidente ai fedeli e a tutti gli uomini, che non si può che deplorare il disprezzo per tali valori, prevedendone le gravissime conseguenze per la disciplina religiosa e la mentalità dei fedeli. Più recentemente, la Congregazione per il Clero riaffermava che né il solo colletto bianco, né una croce bastano a rendere “ecclesiastico” un abito borghese(lettera del 10-02-1996).

Ma nonostante il moltiplicarsi di leggi e richiami, la disaffezione di tanti all’abito religioso è sotto gli occhi di tutti. I paladini di questa politica abusiva ma tanto praticata invocano a loro difesa la necessità di essere più vicini alla gente, al cui scopo un abito specifico sarebbe d’intralcio. In realtà è interessante notare che solo i laicisti, propugnatori della più ampia desacralizzazione della società mediante la secolarizzazione del clero e, se fosse possibile, della Chiesa stessa, hanno accolto con entusiasmo tale novità; la gran parte della gente, credente e non credente, quella che davvero vuole il sacerdote vicino, abitualmente apprezza i ministri di Dio in “divisa”.

[…] mentre il vero ostacolo contro tale vicinanza non è certo l’abito, quanto piuttosto uno stile frettoloso, l’incapacità di ascoltare, l’insofferenza per tutto ciò che esce dai propri schemi e dai propri programmi. A questo proposito […] ammonitrici le parole del papa Giovanni Paolo II : senza dubbio l’attività pastorale richiede che il sacerdote sia vicino a tutti gli uomini e ai loro problemi … ma deve essere anche ben chiaro che essa esige che si stia vicino a tutti questi problemi da “sacerdote” (cf.Lettera Novo incipiente, dell’8 aprile 1979, n. 7) . […].

Paolo VI, ad esempio, lamenta che ci si sia spinti troppo oltre nell’intenzione di per sé lodevole d’inserire il sacerdote nella compagine sociale, arrivando a secolarizzare il suo modo di vivere, di pensare, e di conseguenza il suo abito, con il grave rischio di svigorire  la sua vocazione e offuscare gli impegni sacri assunti davanti a Dio e alla Chiesa (Udienza generale del 17.09.1969).

Ugualmente Giovanni Paolo II […] ricorda ai ministri sacri che l’identità sacerdotale deve essere scrupolosamente difesa dall’insidiosa tentazione di laicizzare il proprio modo di vivere , di agire, e di vestire (cf. Lettera Novo incipiente del 1979 e allocuzione al clero del 09.11.1978).

 

Il valore dell’abito religioso

 

Dunque, l’importanza di un abito distintivo per i consacrati resta confermata dalla voce dell’Autorità ecclesiastica e da quella del buon senso.

E in effetti l’abito è portatore di un triplice valore.

Ha anzitutto un valore psicologico: indossare la divisa di un determinato corpo sociale è memoria permanente a sé e agli altri dei motivi della propria scelta e degli impegni connessi ad essa, rafforzando così il senso di appartenenza a quel corpo.

Ha poi un valore sociologico: significa rinunciare alla manifestazione esteriore della propria singolarità per identificarsi con una categoria, nella quale si spicca per “ciò” che si è, più per “chi” si è; contemporaneamente costituisce l’affermazione pubblica della propria condizione e quindi l’esplicita dichiarazione del proprio appartenere a Cristo e alla Chiesa cattolica.

Ma soprattutto ha un valore teologico: è partecipazione della corporeità alla dedicazione a Dio di tutta la persona;  è manifestazione di quell’elezione divina per cui un uomo viene scelto e separato dagli altri uomini, per essere costituito a bene degli altri, nelle cose che riguardano Dio; è segno di quella trasformazione per cui il consacrato si spoglia dell’uomo vecchio e mondano e si riveste di Cristo, uomo nuovo, creato secondo Dio nella santità.

La nostra società così secolarizzata […] ha più che mai bisogno di “vedere” gli uomini del sacro.

[…]. E se resta vero che “l’abito non fa il monaco”, qualcuno opportunamente ebbe a dire che, però,

“un buon monaco ama il suo abito”.

 

Solo per la mia parte:

Antonio Dovico

 

 

 

20 novembre ’05

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