Crescita all’infinito?


Atonio Dovico – È pacifico per tutti: animali e piante, raggiunto il massimo sviluppo, smettono di crescere. Legge naturale: incontrastabile ed accettata (ma non potrebbe essere altrimenti), dai soggetti appartenenti ai due regni, sia animale che vegetale.

Non si può dire, però, che l’uomo, creatura dominante, sia rispettoso di questa legge. Volontà e scienza, gli consentono di scoprire i meccanismi che soprastanno alla crescita di corpi animali e vegetali. La “favolistica” scientifica vuole che i moderni dèi terrestri possano far crescere un topo tanto, da eguagliare un bue. (Reminiscenze dalla favolistica esopiana: la rana che si gonfia per eguagliare il bue, ma scoppia quando dilata troppo cavità e pelle).

Da quando esiste, l’uomo ha constatato che la proporzione ha sempre dettato legge, ad iniziare dal proprio corpo. Un tronco portante, sormontato dalla testa. Due gambe, per reggerlo in verticale. Due braccia, indispensabili per rendere esecutivi i progetti della testa. Nella normalità tutto deve essere rigorosamente proporzionato. Guai se il braccio avesse le dimensioni delle dita e le dita le dimensioni del braccio. Deduzioni ovvie. Stimolato alla riflessione, il lettore vedrà che tutto quanto gli uomini progettano e costruiscono è dominato dal criterio della proporzione tra gli elementi costitutivi.

Ma se osservare macro, o micro oggetti manufatti è nelle facoltà di tutti, non si può dire lo stesso dei “prodotti” che il cervello umano è capace di concepire.

I prodotti materiali dell’uomo sono oggetti visibili, più o meno semplici o complessi. Un giudizio su di essi può essere formulato con molta approssimazione al vero.

Non si può dire lo stesso dei “prodotti immateriali”, come possono essere organizzazioni di enti, uffici, sistemi politici, ma soprattutto sistemi economici dalla cui efficienza tutto dipende, sia per piccole che per grandi comunità umane. Una struttura sociale come quella economica non può essere valutata e giudicata correttamente, neppure dai più asettici (nel senso di immuni da passionalità ideologica e suoi ingannevoli derivati) ed onesti esperti del settore, se non si tiene conto che l’Economia è una signora rigida, cieca e sorda: non ha sentimenti che possano commuoverla. Non la commuove neppure lo stomaco vuoto del povero. Non si lascia impressionare dalle parole, ma dalla sostanza. Un’economia cresce se le radici affondano nel concreto, non nell’astratto. I grandi economisti saranno pozzi di scienza, in materia, ma se non sanno questo, avrebbero fatto bene a fermarsi alla lettura di Biancaneve e i sette nani.

Il contadino che trae il pane dalla terra col suo sudore, può sfamare i propri figli finché sono piccoli e necessitano solo del pane, ma quando insieme al loro corpo cresceranno appetiti più corposi e variegati, estranei ai bisogni primari, allora lascino il conforto della casa e affrontino personalmente la fatica, se vogliono ottenere quello che desiderano.

Di questa necessità dovrebbero accorgersi per primi quelli che si assumono il compito di formare gli uomini alla visione delle realtà della vita, secondo le “leggi” incoercibili che esse (realtà) impongono.

Dall’ultimo dopoguerra sino ai nostri giorni, rimessa in piedi l’Italia fisica ed economica, a delle fasi dure, ne sono succedute altre sempre meno dure ma, purtroppo, sempre più dispendiose. Il motto delle classi povere non è stato più “Pane e lavoro”, ma pane e soldi per soddisfare non più appetiti naturali insopprimibili, ma “vizi” di vita, una volta tipici della borghesia ricca.

Questa nuova dottrina di vita, che ha come movente la rivalsa nei confronti delle classi sfruttatrici del passato, segretamente vituperate ma intimamente invidiate, ha finito per instaurare una mentalità imitativa a tutti i livelli, avviando così una corsa a possedere – e a consumare – sfrenata.

Per assecondare questa tendenza, si sono potenziate vecchie fabbriche e se ne sono create di nuove: modernissime e molto prolifiche, dotate di ampie superfici di stoccaggio. Di pari passo, a dismisura, è cresciuta la liquidità di denaro di grandi istituti finanziari. Denaro drenato dalla circolazione e concentrato nelle mani di pochi, talché le briciole rimaste alle masse non consentono spese idonee ad alimentare produzioni su larghissima scala. L’introduzione di carte di credito, finanziarie e varie, è stato un palliativo per sostenere un commercio drogato, quindi la produzione e il lavoro che ne deriva. Va da sé che se il commercio è drogato, non può non esserlo anche il lavoro. Cessato l’effetto droga, la realtà si presenta estesamente in tutta la sua durezza.

Quando i governanti parlano di crescita del prodotto interno lordo (PIL), considerandolo come indice di ricchezza, dimenticano di precisare che la produzione, in sé, non è ricchezza. Diventa tale solo se trova accoglienza in un “consorte” che la rende feconda, cioè il consumo. Considerata l’illimitata capacità produttiva delle industrie – per giunta in alcuni settori in soprannumero – sono necessarie larghissime masse consumatrici per assorbirla. Naturalmente, queste, debbono essere in condizioni finanziarie agevoli per poter consumare. Ma abbiamo già detto che il denaro è nelle mani di pochi.

Gli incentivi pubblicizzati che invogliano ad acquistare senza soldi, diffondono demenza economica. In questa situazione, presunte riprese, in realtà sono vampate di foglie secche. Vampate generatrici di future depressioni.

Per capire questo ci vogliono lauree in Economia? Credo proprio di no, se non si è incoscienti, sordi e ciechi. Non si vede, andando in giro per i mercati rionali quante cataste di vestiario si ammassano sui banchi dei mercatanti, a prezzi stracciati? E nei negozi al coperto, non è lo stesso? E i magazzini di stoccaggio non sono pieni?

Non c’è settore industriale o commerciale che non sia sovrabbondante di prodotti.

Ancora più avvilente la vista di ampie superfici, anche all’aperto, di automobili quasi nuove, “versate” in cambio di una nuova. Restringiamo il campo d’osservazione a questo settore per il quale in Italia qualche sprovveduto uomo di governo aveva proposto incentivi e contributi per rivitalizzare la produzione. Pensa tu, lettore! Qualche volta le rotelle invertono il senso di rotazione. Se siamo alla saturazione, la logica non impone come priorità lo svuotamento dei depositi? Allora gli aiuti si debbono dare per “aumentare” l’intaso, o per “diminuirlo”? Un’ulteriore concentrazione di denaro pubblico nelle tasche degli straricchi, non provoca di converso un salasso nelle tasche di gente che vede di giorno in giorno diminuite le proprie risorse finanziarie, tanto da non potere cambiare la macchina, anche desiderandolo? Semmai, l’intervento giusto sarebbe quello inverso: mettere soldi direttamente nelle tasche dei bisognosi perché possano rianimare i mercati coi loro acquisti. Sarebbe un male minore, oltre che equilibratore. Ma il discorso non si può limitare al solo comparto automobilistico. Va allargato a tutto il resto dei settori produttivi e commerciali.

Accennato al tema che concerne il lavoro, è inderogabile parlare di sistema di vita. Qui è la sorgente di tutti i guai. Il sistema adottato dalla totalità degli uomini (e donne, naturalmente) non si snoda secondo ritmi fisiologi naturali, a mo’ del corpo umano. Ad un’analisi oggettiva, sia il produttore che il consumatore che ci sono dentro, lo accettano nella sua dinamica, acriticamente. In mezzo si situa l’elemento mediatico che ha la sua parte nel creare e far serpeggiare una tendenza, che nessuno si sogna di contrastare. Semmai si opera per attizzarla, quando saggezza vorrebbe che si moderasse, come minimo. Le notizie sull’economia che circolano in questi giorni, dovrebbero avere l’effetto di un secchio d’acqua fresca in faccia ad un dormiglione ostinato. Macchè! Letargo profondo.

Amministratori saggi dovrebbero operare per stabilizzare i meccanismi dell’economia a livelli ragionevoli, e nel contempo eliminare le sperequazioni reddituali. Qualche milione di privilegiati guadagna fiumi di denaro, spesso immeritatamente e ingiustamente, mentre milioni di piccoli imprenditori tribolano ogni qualvolta debbono versare le somme esose che sono richieste alla categoria. Se si eliminassero le ingiustizie retributive – depurate dalla demagogia -, che impediscono alla grande maggioranza delle famiglie italiane di spendere – si alimenterebbero così il commercio e la produzione – ci sarebbe più stabilità economica e meno rischi di crolli. Allora, quali provvedimenti logici s’impongono in presenza di una simile inequivocabile realtà? Svuotare i depositi prima di continuare a produrre. Comprendo l’angoscia degli addetti all’industria automobilistica che temono la disoccupazione. Ma qualche volta anche il nostro corpo deve subire diete, cure, operazioni dolorose per riacquistare la salute. Non comprendo, invece, la premura dei governi di sostenere le industrie automobilistiche con il pretesto di conservare il posto agli operai. Credo che dovrebbe essere chiaro per tutti che quando l’automobile è nuova, per anni non necessita il ricovero in officina.

La conseguenza è che l’officina perde il lavoro e chiude. Uno o più operai restano a spasso. Come faranno a tirare avanti?

Per gli artigiani non c’è cassa integrazione. Non ci sono neppure possibilità di altri impieghi, specie nel meridione d’Italia. I vecchi possono rassegnarsi a vivere disperati. I giovani tenteranno di occuparsi al nord. Se gli va bene (e di questi tempi è difficile) andranno a incrementare popolazione e ricchezza del nord, a scapito della terra d’origine. E il fosso tra le due Italie si fa sempre più profondo.

Che cosa si dovrebbe pensare ad uno sguardo sia pure superficiale, di una simile realtà?

A) che il sistema di vita finora adottato è sbagliato, e perciò è da accantonare.

B) Che l’economia, come detto, deve crescere simultaneamente e armonicamente in tutti i settori, per evitare “necrosi” zonali nel corpo del lavoro, che in definitiva tenderebbero ad allargarsi, inglobando nel tempo anche zone vitali.

C) Se si desidera che un’economia cresca all’infinito, bisogna esplorare sempre nuove fonti di lavoro, il cui prodotto trovi un mercato vergine da sfruttare per anni, prima che

sia invaso dalla concorrenza.

D)Che lo Stato non metta la corda al collo all’aspirante imprenditore, sia piccolo che grande, imponendo subito dei pesi insopportabili a chi inizia a camminare su un terreno irto di difficoltà.

E) Lo stato dovrebbe abbandonare i criteri finora adottati, se vuole far fiorire l’economia. Non si danno soldi a chi produce automobili, ma a chi li acquista, previa rigorosa selezione dei clienti bisognosi dell’auto nuova.

F) Il contributo a chi impianta un’azienda nuova non è il miglior modo per sviluppare lavoro. Nel meridione, ma forse anche nel resto d’Italia, se elargito con superficialità tipica dei responsabili del settore, serve a sprecare soldi, senza nessun profitto per un’occupazione duratura. Infatti, spesso le nuove aziende, pensate da persone inadeguate (ipotesi benevola) a condurle e farle crescere, chiudono prima di arrivare alla scadenza del vincolo temporale stabilito, e chi s’è visto s’è visto.

G) Uno Stato efficiente studierebbe quale tipo di lavoro si potrebbe sviluppare in una data zona, vi creerebbe le strutture necessarie per la produzione, per poi affidarle “in comodato” per x numero di anni, ai concorrenti che lo desiderassero. Se l’idea era buona, ma l’imprenditore è incapace e fallisce, le strutture sono sempre valide per un altro che ci voglia provare.

Se la politica si prefiggesse, come dovrebbe essere, di guidare per il meglio uno Stato, deve pensare a come rendere stabile nel tempo un moderato benessere economico, aborrendo colpi ad effetto che attirano consenso immediato, ma che alla distanza procurano guai irrimediabili per tutti.

Antonio Dovico

Scritto il 28 marzo 2009. Riletto e stampato il 17 maggio 2010

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