Il pallone come terapia di crescita sana


– Dal canto al pallone, in sintesi La mia vita –

Il pallone come terapia di crescita sana

Il calcio, questo straordinario sport che fin da bambini abbiamo praticato negli oratori, per le strade, nei cortili, nei prati dall’erba alta, è stato un insostituibile compagno nella crescita di ognuno di noi. Come tutti, come tanti ho amato rincorrere il pallone che per me è stato non solo gioco e divertimento, ma ha anche avuto la funzione di aiutarmi a socializzare, conoscere gli altri e crescere. Un aspetto educativo che si è integrato nel tempo con quello ludico. Ricordo che arrivai a Torino nell’Aprile del 1961. Avevo 10 anni e 4 mesi quando lasciai Milazzo in provincia di Messina, luogo in cui sono nato. Mio padre, dipendente dell’arma dei carabinieri, fu, infatti, trasferito d’ufficio e tutta la mia famiglia dovette traslocare nella città piemontese che in quel periodo era in pieno fulgore industriale. Il nostro nucleo famigliare era composto di cinque persone, papà, mamma e tre fratelli maschi, dei quali io sono il più giovane. Arrivammo dal Sud con la valigia di cartone legata con lo spago. Dentro quella valigia, stracolma di tutto, c’erano non solo i vestiti ma anche il desiderio profondo e la speranza di una vita migliore. Vivevamo con il solo stipendio di papà che era composto di poche centinaia di lire, mamma casalinga e tre fratelli studenti. Siamo sempre stati una famiglia unita negli affetti, ma con poche possibilità economiche. La mamma gestiva con assoluta capacità lo stipendio mensile di papà, e non so come facesse, riusciva con dignità ammirevole e con orgoglio, a mantenere quegli equilibri di fabbisogno quotidiano, necessari per vivere senza affanni. L’approccio con Torino non fu facile, erano gli anni in cui i muri della città pullulavano di cartelli con scritto: “Affittasi, non a meridionali”. Per fortuna la mia famiglia, grazie alla garante divisa di appuntato dei carabinieri di papà, non ha avuto questo tipo di problemi. Trovammo casa, infatti, in piena zona (oggi quartiere) Santa Rita, esattamente in via Romolo Gessi angolo Corso Orbassano a due passi dall’immensa Piazza d’Armi, che allora era una vasta campagna invasa da sterpi ed erbacce talmente alte, che quando ci andavo a giocare a pallone mi prudevano le gambe.

La nostra casa era situata di fronte alla Caserma dei Carabinieri, là dove papà faceva il suo servizio. Lì, in quella zona, ho cominciato a conoscere i miei compagni torinesi il cui dialetto per me era ostrogoto. Mi chiamavano “Terrone” ed alla scuola elementare Mazzini, dove andavo accompagnato con la mano rassicurante di mia madre, mi misero a sedere da solo all’ultimo banco perché ero l’ultimo arrivato. Ricordo ancora quei vecchi banchi di scuola scuri come le pareti dell’aula. Io, piccolo com’ero, più di una volta ho lacerato i miei pantaloncini corti nel tentativo faticoso di sedermi, talmente erano alti. Ero solo, mi sentivo quasi un incomodo. Il maestro e i miei compagni sembravano quasi incuranti della mia presenza, ed io soffrivo. Ricordo quel primo giorno di scuola in maniera traumatica, tanto è vero che quando il suono della campanella ci segnalò che era ora di andare a casa scappai subito senza esitare. Fuori mi aspettava amorevolmente mia madre, ed io appena la vidi scoppiai a piangere a dirotto per lo sconforto. Non fu un bel giorno per me, ma per fortuna, le parole rassicuranti di mia madre mi diedero la forza di non mollare e continuare questa nuova esperienza nella realtà torinese. Con il tempo, infatti, le cose migliorarono. Io mi integrai perfettamente con i compagni di scuola, ed insieme a loro ho condiviso l’amore per il pallone. Abitavano tutti nel quartiere Santa Rita, e questo ci agevolava per trovarci e giocare. Andavamo in Piazza d’Armi e qualche volta giocavamo nel cortile sottostante la casa, dove abitavo. Qui non c’erano gli alberi che ci aiutavano a formare le porte, e così mettevamo i nostri indumenti. Ricordo che passavamo molte ore a giocare, a rincorrere quel pallone che significava amicizia sincera. Poche volte mi sovvengono bisticci, e se qualche volta è accaduto, dopo poco tempo ci abbracciavamo perché qualcuno di noi aveva fatto gol. Ora non ero più il “Terrone” da allontanare, ma ero diventato uno di loro grazie al pallone. Un processo terapeutico lento ma efficace, che ha incrementato la mia autostima di bambino che non aveva più il timore di socializzare con gli altri.

Passa il tempo, trascorrono gli anni, ma il pallone per me è rimasto come il segno di un destino che ti accompagna per tutta la vita. I miei figli hanno giocato a calcio e li ho seguiti giorno dopo giorno. E, soprattutto, sono diventato un giornalista che, inviato dal mitico Piemonte Sportivo, ha calcato tutte le società di calcio dilettantistiche del Piemonte. Oggi, intanto, quando passo dal “mio” quartiere Santa Rita che amo profondamente, rivedo la casa, dove abitavo, il cortile dove giocavo, Piazza d’Armi che è totalmente cambiata, e quel pallone che è stato l’amico vero che mi ha aiutato a farmi conoscere ed accettare dai miei coetanei di allora. Grazie Torino, mia bella città Sabauda che pulluli di storia antica e brilli di luce propria. Grazie di avermi adottato, ospitato, accettato. Non lo dimenticherò mai!

Salvino Cavallaro

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