L’ITALIA E’UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA FONDATA SUL LAVORO


1) – Antonio Dovico – Tutti avete sicuramente riconosciute le parole del titolo. Sono quelle del primo articolo della Costituzione della Repubblica Italiana. La Costituzione è entrata in vigore il primo gennaio 1948, anno in cui frequentavo la quinta elementare. Quando le lessi per la prima volta, compresi subito che il riferimento al lavoro era per mettere in chiaro che l’Italia non possedeva le risorse minerarie del sottosuolo russo e delle altre grandi nazioni europee, perciò era considerata povera. E per prosperare la sua risorsa era costituita dal lavoro. La guerra era ancora in corso quando ho iniziato le elementari, e gli insegnanti non tralasciavano di ricordarci la nostra povertà. Per darne un’idea, in una scolaresca con oltre trenta alunni, solo tre-quattro avevano potuto acquistare tutti i libri dell’anno scolastico, gli altri avevamo a stento il libro di lettura.

L’Italia Monarchica che aveva affrontato la guerra vantandosi del proprio armamento, arricchito da otto milioni di baionette, transitava nella Repubblica Italiana, ma restava sempre la cenerentola d’Europa. Unica ricchezza da sfruttare, le braccia dei suoi oltre 47 milioni di abitanti, di ambo i sessi. Ero bambino di neppure 11 anni e non ebbi dubbi sul come interpretare il pensiero dei padri costituenti. Non potendo contare sulla ricchezza naturale, non restava che fondare il futuro dell’Italia sul lavoro. Lo preciso: prevalentemente lavoro di braccia, proprio quello che estrae il pane di sopravvivenza dalla terra. Ricordare l’epoca. L’immediato dopoguerra fu il boom dell’esportazione di braccia. L’ Argentina di Peron, il Brasile, il Venezuela ,l’Australia, in parte gli USA, diventarono meta dei nostri emigranti. Quelli che non emigravano si dedicavano al duro lavoro delle campagne, al quale partecipavano le donne, come potevano. Per esempio, governando la mucca che procurava reddito, sia con il latte che con il vitello. La capretta, il maiale, le galline, l’orto.

Insomma, avveniva realmente che la gente vivesse di lavoro duro, allattando legittimamente alle mammelle della propria mucca, e non a quelle secche dello Stato di allora. Il percorso del pane era limpidamente naturale, e non inzuppato della fatica degli altri. Le rimesse degli emigranti incominciarono ad arrivare copiose, dando inizio alla formazione di un gruzzoletto che faceva respirare le famiglie. Quando questo incominciava a diventare cospicuo, incoraggiava a rinnovare il tetto della casa, o a trasformare qualche tugurio disabitato in gradevole ambiente abitabile. Prassi che si dilatava di giorno in giorno, dando l’avvio ad un costante incremento dell’occupazione. Ad un certo punto, nuove case sorgevano come funghi. Lavoro in abbondanza dal quale derivava un reddito che andava a sommarsi alle rimesse dall’estero, generando così il famigerato boom italiano. La felice fase economica del boom, illudeva che poteva durare all’infinito. Ma così non poteva essere. Doveva servirci di ammonimento la storia biblica delle sette vacche grasse e delle sette magre, sognate in successione. Prefiguravano sette anni di abbondanza seguiti da sette di carestia.

Ma quando mai si è tratto insegnamento dalle storia, fosse pure ispirata alle favole? Il boom ha rivoluzionato la struttura naturale della società. Sempre meno dedicati alla fatica del lavoro e sempre più spiccata propensione alla vita comoda. Generazioni allevate nel benessere hanno lasciato la falce e il martello per impugnare la penna. Ne è scaturito uno squilibrio tra chi produce ricchezza reale e chi su di essa ci campa, senza partecipare alla sua formazione. Intanto tecnologia ed altri fattori , man mano che avanzavano, riducevano la disponibilità di posti idonei a produrre beni reali. La concorrenza elettorale ha rotto gli argini della prudenza nell’interpretazione dell’articolo 1 della Costituzione, autorizzando fantasiose applicazioni. Quella che a me pareva ovvia, come appare da quanto ho scritto, fu sepolta dalle convenienze clientelari, e per gli sconsiderati che pensavano alla loro carriera politica

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