Tra unzioni, epidemie e processi di piazza


 – Foto: Fabio Viglione.

Rubrica: “Il parere dell’Avv. Fabio Viglione”

In questi giorni imperversa l’emergenza per l’epidemia di “coronavirus” e nel nostro Paese tante sono state le iniziative volte a scongiurare la propagazione del contagio. Restrizioni di vario genere, dalla chiusura di scuole, locali e musei, al rinvio delle competizioni sportive. La ricerca del “paziente zero”, della persona che avrebbe importato il virus in Italia, procede frenetica ed avvolta nel mistero. La cosiddetta “zona rossa” si è condensata nel Nord Italia ed in Lombardia si è registrato il maggior numero di contagiati. Incetta di mascherine, corsa all’acquisto di disinfettanti, speculazioni sui prezzi di alcuni simboli salvifici come “l’amuchina”, decaloghi sulle nuove norme igieniche da rispettare. Nelle televisioni non si parla d’altro. Tra polemiche e accesi dibattiti. Colpi di tosse e stranuti guardati a vista come sintomi di contagio. Diffidenza generalizzata. Anche una stretta di mano o un abbraccio rappresentano gesti da cuori impavidi. Ed ecco che, ad ogni angolo di strada, può materializzarsi un inconsapevole “untore”. “Gli untori”… Forse per una difettosa sinapsi mi sento proiettato in una rievocazione di tempi lontani. Eccoli gli untori, categoria di uomini partoriti dalla fervida fantasia popolare del passato. Una fantasia nata nel popolo, desideroso di attribuire a qualche volto le responsabilità di una sciagura. Proprio la Lombardia e Milano furono teatro di drammatiche vicende in cui si intrecciarono epidemie, deliranti populismi forcaioli e memorabili processi di piazza. Era il lontano 1630. Un anno terribile. L’anno in cui proprio Milano fu sconvolta da una epocale epidemia: la peste. Catastrofico il bilancio delle vittime. Una popolazione decimata per via di un batterio che non dava scampo. Il propagarsi della peste mise in ginocchio l’intera città e prese vita lo spasmodico bisogno di attribuire a qualcuno la causa di tanta terribile sventura. L’assetto istituzionale e politico vacillava, la diffusione della peste non si riusciva a debellare con adeguate cure, il popolo perdeva punti di riferimento. Una risposta doveva giungere inesorabile soprattutto per mano dei pubblici dispensatori di sicurezza e giustizia. In un misto di eccentriche credenze popolari, superstizioni e bizzarre teorie di dotti e benpensanti, maturò la teoria secondo la quale la peste era frutto dell’opera di uomini malvagi che la diffondevano imbrattando la città con unguenti mortiferi. Erano gli “untori”, tipologia di uomini partoriti dalla irrefrenabile voglia di costruire bersagli in carne ed ossa. Tanto attraverso le suggestioni, i condizionamenti di massa e le paure che si fecero furore vendicativo. Alcuni malcapitati finirono per essere accusati, processati, torturati, condannati ed atrocemente giustiziati. Non solo. Gli incolpati, vuoi per le torture patite ma ancor di più per le allettanti promesse di impunità, finirono inesorabilmente non solo per confessare – crimini mai commessi – ma per accusare altri innocenti. Vere e proprie calunniose “chiamate in correità”. Oggi sappiamo che di qualunque unzione pestifera si accusassero non potevano che essere innocenti perché la peste non nasceva in una bottega o in un laboratorio. Lo ha certificato l’evoluzione della scienza. La peste aveva altra e diversa natura. Non era una “peste manufatta”, deliberatamente trasmessa dall’opera di portatori sani di diabolica malvagità. Della patogenesi dell’epidemia fu responsabile un batterio, “ Yersinia pestis” (dal nome dello studioso che alla fine del 1800 lo individuò) diffusosi attraverso le pulci dei ratti e favorito dalla scarsa igiene di una buona parte della popolazione. Eppure, la necessità di attribuire a qualcuno la responsabilità di quelle atroci sofferenze, si materializzò nella volontà di dar vita a processi esemplari. Ad una popolazione ormai stremata dalla sofferenza andavano consegnati colpevoli contro i quali indirizzare una liturgica vendetta, in un furore cieco. Ma possibile che si credesse che alcuni uomini sarebbero stati in grado di maneggiare unti pestilenziali senza contratte la malattia? Per usare una espressione manzoniana,“ il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”(I Promessi Sposi, Cap. XXXII). Prese forma così la “caccia all’untore” che, coinvolgendo l’intera comunità, si nutriva della diffidenza e del sospetto generalizzato. Venne a crearsi, così, l’humus favorevole per una serie di clamorosi quanto inevitabili errori giudiziari. Manzoni, ad oltre due secoli di distanza, riprendendo le carte ingiallite dal tempo, ricostruisce, nella “Storia della Colonna Infame” il processo a due sventurati, Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza. Entrambi per una serie di congiunture sfavorevoli verranno ingiustamente accusati e processati quali responsabili delle unzioni pestifere. Peccato, però, che si trattasse di due innocenti e che in un meccanismo infernale finirono per cedere alle torture ed alle lusinghe degli inquirenti. Nelle pagine del componimento manzoniano rivive, fin dalla sua genesi, quel processo memorabile, durato circa due mesi (dall’arresto all’esecuzione della sentenza di condanna). Dalle superficiali indagini condotte dal Capitano di Giustizia, all’arresto di Guglielmo Piazza, un Commissario di Sanità che per sua sventura in una mattina di giugno del 1630 si trovava a passare sotto le finestre della abitazione di una donna, Caterina Rosa che, evidentemente, in preda alle suggestionanti teorie sulle cause dell’epidemia, si convinse che lo sconosciuto stesse ungendo i muri con una sostanza scura, per diffondere la peste. Trovati i muri sporchi ed acquisite superficiali conferme da un’altra vicina di casa (Ottavia Bono), il cerchio si chiuse. Bastarono semplici macchie di inchiostro sulle mani dello sventurato per provare l’accusa e ricorrere alla tortura. Opportunamente intervallata e seguita da promesse di impunità. Innescato l’infernale meccanismo, giunsero, quasi inevitabili, eccentriche confessioni e false accuse ai presunti complici. Ne fece le spese, per primo, un povero barbiere, Gian Giacomo Mora, accusato di essere, nella sua bottega, il dispensatore di unguenti pestilenziali. Dopo aver protestato in ogni modo la propria innocenza, lacerato e fiaccato dai tormenti, il povero Gian Giacomo Mora, cedette. Così si lasciò andare ad una espressone programmatica che passò alla storia: “…vedete quello che volete che dica che lo dirò…”. Non c’è che dire, il paradigma della spontaneità nella ricerca della prova! Ma né questo atteggiamento né altre chiare evidenze dell’estraneità dei due sventurati rispetto all’infondata accusa, fece recedere gli inquirenti dalla loro missione. Anzi, si allargò il numero degli accusati. Era troppo forte la voglia di vedere in questi uomini le tracce di una malvagità da estirpare, di una giustizia da esibire, di una vendetta da realizzare ed innalzare al cielo “a furor di popolo”. Da innalzare proprio come la “colonna infame” che venne eretta innanzi alla bottega del povero barbiere ad imperitura memoria delle atroci (presunte) malefatte del Mora. «Lungi adunque, lungi da qui buoni cittadini, ché voi l’infelice infame suolo non contamini», recitava l’epigrafe. Ma quella colonna, rimossa nel 1778, un simbolo lo è diventata. Ma di segno opposto. Il simbolo dell’amministrazione della giustizia ingiusta. Prima nel metodo che nel merito. Si il metodo. Non solo per l’uso della tortura, che nel 1630 veniva utilizzata ad adiuvandum, rispetto alle confessioni. Per la mancanza di laicità e di terzietà che caratterizzò l’intero percorso guidato da un furore cieco fattosi sentenza. Una sentenza già sostanzialmente scritta all’alba del primo interrogatorio. L’ipotesi assolutoria non era una opzione prevista, non era un epilogo giustificabile per un processo che doveva essere celebrato “a furor di popolo”. Ed ecco che ogni inverosimiglianza dell’accusa finiva per essere giustificata. Anche a dispetto del buon senso. Quello che, come detto, in quel tempo, “se ne stava nascosto per paura del senso comune”. A cominciare dall’atteggiamento del povero Piazza, ritenuto sospetto perché camminava rasentando le mura dei palazzi. Il poveretto cercava solo di ripararsi per quanto poteva…Ma, evidentemente, non era una giustificazione soddisfacente…Meglio credere che si trattava di un atteggiamento di chi volesse “ongere li muri”…Di tali aberranti impostazioni metodologiche, un resoconto accurato lo fornisce proprio la Storia della Colonna Infame, forse il primo romanzo inchiesta di indole giudiziaria. Nella sua drammatica intensità, l’Opera rappresentare l’icona dell’ingiustizia come risposta ineluttabile ad una smodata ed ansiosa ricerca… di Giustizia. Una miopia collettiva, che riflettendo le istanze della piazza, si impadronì dei giudici innanzi ai quali gli sventurati finirono per recitare un copione già scritto. Nessuna laicità, nessuna assenza di pregiudizio, nessuno spazio al libero convincimento che va a formarsi progressivamente. Chi era chiamato a verificare e giudicare restava sordo e indifferente alla vibrata protesta di innocenza. “Quanto è cieco il furore!”, scrive Manzoni, analizzando le carte ingiallite ed esaminando gli snodi processuali decisivi che consentirono ai “teoremi” di prevalere sui “fatti”. Quando il furore entra in un aula di giustizia per rispondere ad una salvifica missione – con il vento in poppa del senso comune – l’errore è dietro l’angolo. Come detto, il primato dei “teoremi” sui “fatti”. Ed ecco che, questa storia di dolore ed ingiustizia, raccontata nella fedele ricostruzione di queste carte processuali, lascia molto di più che una semplice cronaca di un processo. Assurge a illuminante cometa in grado di guidare il sentiero da seguire nella tormentata ricerca della verità, contro ogni forma di condizionamento preconcetto ed appiattito – anche se animato dalle migliori intenzioni – su istanze di punizione esogene, pericolosamente diffuse.

Fabio Viglione

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

What do you want to do ?

New mail

Articoli simili