– Foto: oltre quella porta.
Rubrica “Incontri”
A cura di Salvino Cavallato
Dedicato agli anziani morti nelle case di riposo.
Era l’anno 2006 quando ho fatto personalmente questa esperienza di particolare intensità emotiva presso una casa di riposo per anziani. Forti momenti di riflessione nel luogo del dolore che volli riassumere in questo mio racconto proprio nell’immediatezza di quell’anno. Sembra ieri, eppure quante cose sono cambiate in quattordici anni con l’avvento della pandemia da Covid 19 e i gravi errori commessi in questa circostanza dalle Istituzioni, i quali hanno falcidiato la vita di quasi tutti gli anziani ospiti delle case di riposo. E non riesco a dimenticare quei corpi e quelle morti in solitudine, finiti poi in cenere sistemata nelle urne. Una vita di sacrifici che si sono intersecati all’orgoglio di aver portato avanti la propria famiglia. Oggi mi resta il ricordo di quel giorno diverso dagli altri. Un’esperienza unica che ha saputo maturare in me lunghi momenti di riflessione sul significato della vita. Buona lettura.
Oltre quella porta.
Un giorno diverso dagli altri.
Il racconto di Salvino Cavallaro
Sono stato in visita al “Grande Albergo”. Detto così, per chi non conosce la realtà della quale sto parlando, sembrerebbe che io sia stato in vacanza e abbia soggiornato in una confortante e lussuosa dimora. Il Grande Albergo, in effetti, è stato in passato un ambito luogo di soggiorno per coloro i quali amano curare il proprio corpo attraverso le cure termali. C’è, infatti, nei dintorni, una rinomata sorgente di acque benefiche e il grande albergo, attraverso la sua magnifica struttura era in grado di ospitare centinaia di persone. Uomini e donne di ogni età, legate a quel concetto di vita che vede nel benessere fisico e mentale, il modo migliore per “ricaricarsi” e riprendere ad affrontare con più vigoria la faticosa quotidianità. Oggi però, il Grande Albergo è un ricovero per anziani, una casa di riposo, uno dei tanti luoghi tristi sparsi in tutta Italia, in cui le persone che sono supportate da lucide capacità cognitive e non, lottano quotidianamente per dare ancora un senso alla propria vita. E così, mi è capitato di oltrepassare “quella porta” come visitatore, un po’ per dovere di cronaca giornalistica e un po’ per arricchire il mio bagaglio di esperienze umane. Suono il campanello e subito mi accoglie la direttrice dell’istituto, la quale dopo avermi descritto l’interno della struttura attraverso gigantesche fotografie affisse come fossero quadri appesi al muro, mi ha ragguagliato circa le caratteristiche umane delle persone anziane che occupano la casa. Finito questo breve colloquio, la direttrice mi affida alla psicologa dell’istituto che avrà il compito di accompagnarmi durante la visita che si protrarrà probabilmente per tutta la giornata. Così, dopo esserci presentati a vicenda, Angela (questo è il nome della psicologa) mi conduce a visitare le stanze della casa di riposo. Quattro piani con ascensore, lunghi corridoi ai cui bordi sono ordinatamente parcheggiate una serie di utili deambulatori, stanze luminose con servizi igienici interni e attenta cura verso la pulizia. Girando per i corridoi m’incuriosiscono i salottini fatti di canna di bambù sui quali si poggiano dei sofficissimi cuscini capaci di dare relax a coloro i quali intendono riposarsi. Dopo aver visitato le camere e i lunghi corridoi dell’istituto, insieme alla psicologa ritorniamo al pianterreno della casa, dove sono ubicati due grandissime sale da pranzo con relativi tavolini e posti a sedere assegnati. Affisso al muro si scorge il menù giornaliero suddiviso tra pranzo e cena. Oggi a pranzo, di primo si mangiano spaghetti con il pomodoro o in alternativa pasta e fagioli, come secondo pollo con contorno di patate al forno e infine frutta. Per cena è prevista la minestra come primo piatto, poi una fettina di carne e la frutta.
Intanto, procede la nostra visita e percorriamo un altro grande corridoio dai soffitti altissimi che ci porta all’esterno della struttura. Qui c’è un grande giardino arricchito da alberi secolari, che durante la stagione estiva garantiscono zone d’ombra e frescura capaci di mitigare la calura diurna e agevolare la pennichella pomeridiana. E intanto qua e là per il giardino, ritrovo gli stessi salottini che avevo notato nei lunghi corridoi interni della sala. Su di essi, seduti a gruppetti, ci sono gli anziani che conversano tra di loro, mentre coloro i quali non sono autosufficienti sono seduti sulle carrozzine. Uno di loro disquisisce su fatti politici e gli altri ascoltano, almeno così sembra. Colui il quale parla con toni accesi, pensa di essere il ”Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi” e si inalbera esattamente come quando egli, alla Camera dei Deputati, si rivolge ai partiti di opposizione. La psicologa mi dice che ci troviamo di fronte ad un caso maniacale, una forma di alienazione in cui il soggetto tende a manifestare attraverso il suo essere narcisista, un concreto atteggiamento da leader di gruppo. Egli è fondamentalmente solo perché la moglie è morta e i figli non vengono più a trovarlo. Ma, come spesso succede in questi casi, il soggetto non essendo sorretto da facoltà cognitive non razionalizza la sua realtà e quindi non è portato a soffrire. “Meglio per lui” penso. Più in là, troviamo un altro gruppetto di persone e la psicologa Angela, m’invita a sederci accanto a loro, perché dice che così facendo, li aiutiamo a svolgere una relazione con gli altri, allontanando così il costante pensiero di abbandono. Incuriosito, accetto molto volentieri. Ma nel frattempo suona la campanella, la quale ci ricorda che è mezzogiorno e che è ora di recarsi a pranzo. “Berlusconi” blocca immediatamente la sua seduta di “Governo” e assieme agli altri anziani autosufficienti si incammina verso le sale da pranzo. Coloro i quali siedono nelle carrozzine sono invece accompagnati dal personale dell’istituto. La gentile psicologa, intanto, mi esorta a pranzare con loro, ma io preferisco non accettare l’invito per non apparire invadente. Prometto comunque di ritornare dopo pranzo per continuare il nostro percorso di esperienze umane. Così ci salutiamo con un arrivederci e dopo aver ripercorso quel lungo corridoio che porta all’uscita dell’istituto, riapro “quella porta” che mi riconduce alla vita….quella vera!
A piedi attraverso la strada, il traffico è frenetico e tra un semaforo e l’altro mi accorgo immediatamente di essere ritornato nella realtà di tutti i giorni. Davanti a me un bar, penso sia il caso di fermarmi a mangiare un panino, bere un bicchiere d’acqua e magari un buon caffè, giusto per tirarmi su di morale. E così faccio. Scelgo il panino che mi piace di più, quello ripieno di pomodoro e mozzarella. Mi siedo, e tra un boccone e l’altro non posso far altro che pensare a quella mattinata vissuta al “grande albergo”. Oltrepassare “quella porta” ti lascia perplesso, resti coinvolto da mille riflessioni e ti attanaglia preponderante il pensiero “dell’inverno” della vita. Penso e ripenso a quelle persone, ai loro sguardi spersi nel vuoto, alla loro fondamentale solitudine, ai loro affetti più cari (se ci sono ancora), ma soprattutto alla concreta difficoltà di vivere rinchiusi. Eppure, sembra incredibile come la vita ci metta di fronte a realtà così crude. L’ambiente della casa di riposo, infatti, se pur accettabile dal punto di vista della gestione, non può colmare i vuoti affettivi e il progressivo senso di solitudine degli anziani, che non sono dei pacchi da spostare o dei burattini da manovrare all’occorrenza, ma delle persone che conservano pur sempre la loro dignità. Uomini e donne di diverso ceto sociale e opposta cultura, si ritrovano malinconicamente a condividere la fine della propria vita in un ambiente che non può avere il calore della propria casa. Ma, accidenti come passa il tempo fuori dall’istituto. Sono già le ore 15, devo affrettarmi perché mi aspettano al “grande albergo”. Pago frettolosamente alla cassa del bar quello che avevo consumato e schizzo via più veloce della luce.
Mi ritrovo così ancora una volta davanti a “quella porta”. Suono, mi aprono e lungo il corridoio mi viene incontro Angela, la psicologa che già mi aspettava. Insieme riprendiamo il nostro percorso iniziato nella mattinata, ritrovandoci esattamente dove ci eravamo salutati: in giardino. Qui vediamo due persone intorno ai settant’anni, anno più anno meno, che la psicologa conosce bene. Ci accomodiamo accanto a loro nel salottino di canna di bambù. Mi presento a loro stringendo la mano e mi accorgo che uno dei due è non vedente, mentre dell’altro avevo già notato in mattinata delle serie difficoltà a camminare e a mantenersi in equilibrio. “Piacere” mi dice il non vedente, “mi chiamo Mario e sun de Milan”. “Piacere” mi dice l’altro, “mi chiamo Stefano, sono siciliano ma perugino di adozione”. “Mi chiamo Salvino” dico a loro “e sono un giornalista sportivo di Torino”. “Ma che bello deve essere scrivere” mi dice Mario, cercando di toccarmi per conoscermi meglio “Si è bello” gli dico, “perché hai modo di descrivere il mondo e tutto ciò che lo circonda”. La psicologa intanto, mi fa segno di dare un po’ delle mie attenzioni anche a Stefano, che notoriamente è più taciturno e tende a isolarsi rinchiudendosi sempre nella sua stanza. All’interno dell’istituto, durante il giorno si svolgono delle attività coordinate appunto dalla psicologa la quale invita a gruppi una serie di persone, con il preciso intento di interessarli a socializzare. Così ci si incontra, si gioca a carte, si legge, si dialoga e ci si confronta con gli altri, ma Stefano sembra talora amorfo, disinteressato a ogni cosa. Lui, durante la sua vita lavorativa, è stato responsabile del personale di diverse aziende importanti, ha anche viaggiato molto per lavoro ed ha curato da sempre le pubbliche relazioni. La sua cultura è tale, che più d’una volta trova difficoltà a socializzare in questo ambiente che, purtroppo per lui, non è mediamente abitato da anziani lucidi di mente. Da qui il desiderio di abbandono, tutto diventa inutile tra queste mura e così subentra in lui la voglia di solitudine. Mi rivolgo a Stefano dicendo che anch’io sono nato in Sicilia, ma che da bambino mi sono trasferito a Torino con i miei genitori. L’argomento sembra interessargli, tanto è vero che comincia a rispolverare quei ricordi del cuore chiusi gelosamente nel proprio cassetto delle cose care, che il trascorrere degli anni e le sue vicissitudini avevano sopito.
“Sono nato in provincia di Enna” dice Stefano con evidente voglia di raccontare, “ ma ho vissuto molti anni a Lipari, nelle isole Eolie”. “Ci siamo trasferiti poi a Torino con la mia famiglia, dove mi sono laureato in Scienze Politiche e ho lavorato in qualità di capo del personale presso tante aziende di primaria importanza. A Torino ho conosciuto una bella ragazza, un’insegnante di Terni. Con lei mi sono sposato e insieme abbiamo avuto due figli, Giuseppe e Valentina. Poi, assieme alla mia famiglia, mi sono trasferito a Perugia, dove abbiamo vissuto lunghi anni della nostra vita. L’Umbria è una terra straordinaria che ti dà modo di vivere ancora a dimensione d’uomo, accogliendoti con semplicità e nel pieno rispetto dei valori umani”. Mario, intanto, sembra ascoltare affascinato. Di solito è lui a essere loquace, ma questa volta, forse per rispetto di Stefano che considera amico vero, si mette discretamente in religioso silenzio. Così penso di coinvolgerlo nella nostra chiacchierata e subito, i suoi occhi che non vedono, sembrano illuminarsi di entusiasmo. “Mario” gli dico “se tu dovessi consigliare qualcosa al tuo amico Stefano, cosa gli diresti?“. “Lo Stefano è un grande amico”, mi dice con quell’inconfondibile accento milanese che ha l’abitudine di mettere l’articolo prima del nome, “Io non so nulla del suo passato e non so neppure perché lui si trovi qui. Certo un motivo ci sarà, come c’è pure per ognuno di noi, tuttavia, non ho voluto indagare perché penso che non sarebbe corretto. Lui è una persona speciale ed io pur non avendo l’opportunità di vederlo, sento a livello epidermico che è dotato di particolare sensibilità. Ciò che vorrei fargli capire è che non deve incupirsi e autoescludersi perché certe ferite dell’anima che ci accompagnano fin da quando siamo entrati qui dentro, non si rimargineranno più e ci accompagneranno fino alla fine. Dobbiamo quindi cercare di vivere, anzi di sopravvivere con l’intento di dare quel significato di esistere che, in questo luogo, se ti fermi a riflettere non puoi trovare.” Mario non è cieco dalla nascita, ma ad un certo punto della vita, per una malattia del bulbo oculare ha perso totalmente la vista. Anch’egli ha girato il mondo per lavoro e anche per piacere, acquisendo nel tempo una notevole conoscenza dell’essere umano. Ha vissuto per lunghi anni a Gubbio, il centro umbro che lui adora, ma talora lo attanaglia il desiderio profondo di ritornare a Milano – “Milan l’è un gran Milan” – e magari andare allo stadio San Siro a risentire quei cori rossoneri che sono l’emblema della sua fede milanista. E anche se ora i suoi occhi non possono più vedere la partita di calcio, nella sua mente riaffiorano come un film le immagini di quando era ragazzino e giocava a pallone per le strade di periferia della sua Milano. Sapori ineguagliabili di semplicità e di giovinezza che si intersecavano con l’inconfondibile profumo della “michetta” appena sfornata, il panino che egli mangiava assieme alla nutella. E’ bello parlare di ricordi quando questi ti aiutano a vivere meglio, è terapeutico ed è coinvolgente anche per chi sta ad ascoltare. E’ quello che sta accadendo a me, a Stefano e alla psicologa Angela che in religioso silenzio stiamo respirando il profumo genuino e semplice della vita. Che insegnamento! E che straordinaria esperienza! E intanto inesorabilmente, la campanella dell’istituto ci ricorda che sono le ore 19 e che è ora di cena.
Stavolta dobbiamo proprio salutarci, forse per sempre. Mi alzo per avvicinarmi a Mario e Stefano pensando di stringere loro la mano e invece sono stato coinvolto da un abbraccio fraterno, struggente e allo stesso tempo vigoroso. “Non lasciarci” mi dicono entrambi. Commosso, li abbraccio a mia volta calorosamente con la promessa (forse un po’ bugiarda ma sicuramente detta a fin di bene per non uccidere la speranza), che prima o poi sarei ritornato a passare un’altra giornata assieme a loro. Saluto e ringrazio la psicologa per avermi dato l’opportunità di vivere intensamente un’emozione e un’esperienza di vita certamente unica. “Mi resterete nel cuore. State certi che non vi dimenticherò!” dico. E così mi dirigo verso quel lungo corridoio dell’istituto che conduce all’uscita. Incontro ancora una volta il “Presidente Berlusconi” sempre alle prese con i suoi comizi a tutti quegli anziani che seduti sulle carrozzine ti guardano teneramente come se ti chiedessero: “portami via con te”. E intanto, quando mi ritrovo ad aprire “quella porta” che mi riconduce alla frenetica vita di tutti i giorni, lo faccio con tristezza e con un groppo alla gola. Troppo forte e profonda è stata questa esperienza di vita che mi ha fatto riflettere per l’ennesima volta sulla necessità di gustare lentamente il tempo che fugge via inesorabile, di viverlo intensamente e con serenità. Domani tornerò alla mia quotidianità, andrò in redazione a scrivere di calcio, a occuparmi di Toro, di Juve, di Milan, di Inter e di quanto ci propone l’opinabile mondo della pelota. Ma una cosa è certa, non dimenticherò mai quel giorno diverso dagli altri e l’aver oltrepassato “quella porta” che è l’emblema dell’entrata in una vita che…..non è più vita!