Reggio Calabria, “Operazione rasoterra” contro il caporalato


La Polizia di Stato di Reggio Calabria, , nel corso di un’operazione di polizia convenzionalmente denominata Rasoterra, ha dato esecuzione all’ordinanza di applicazione di misure cautelari emessa in data 12.02.2021 dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Palmi, nei confronti di soggetti ritenuti responsabili, a vario titolo, di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro in concorso (caporalato) e trasferimento fraudolento di valori in concorso. Le complesse e articolate indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Palmi [RC], sono state condotte dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria e il Commissariato di P.S. di Gioia Tauro [RC], coadiuvati dalla Squadra Mobile di Caserta e dagli equipaggi del Reparto Prevenzione Crimine.

Su richiesta della locale Procura della Repubblica, il G.I.P. di Palmi ha altresì disposto il sequestro preventivo di una ditta attiva nel settore delle coltivazioni agrumicole, olivicole, di kiwi e ortaggi.

Le indagini – condotte dal Commissariato di P.S. di Gioia Tauro e dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria dal mese di giugno 2018 al mese di giugno 2019 sotto la direzione della Procura di Palmi – hanno consentito di far luce su alcune vicende di grave sfruttamento lavorativo nelle campagne di Gioia Tauro di numerosi migranti di origini subsahariana alloggiati nella baraccopoli di San Ferdinando, prima che venisse smantellata nelle giornate del 6 e 7 marzo 2019.

Dalle attività di controllo delle aziende e delle colture agrumicole in cui gli immigrati venivano impiegati come braccianti, dalle audizioni dei lavoratori sottoposti a sfruttamento e infine dalle operazioni di intercettazioni telefoniche condotte dagli Uffici operanti della Polizia di Stato, è emerso un contesto di assoluto rilievo criminale caratterizzato dal continuo verificarsi di condotte delittuose poste in essere da diversi soggetti della Piana di Gioia Tauro (datori di lavoro, caporali e faccendieri) consistenti quasi sempre nel reclutamento, utilizzazione, assunzione e impiego dei lavoratori extracomunitari a basso costo, allo scopo di destinarli al lavoro nei campi in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno.

Ogni anno, da settembre a marzo e nel pieno della stagione agrumicola, giungono nella Piana di Gioia Tauro, specialmente nelle aree comprese tra Rosarno, Rizziconi e San Ferdinando, moltissimi migranti di origine centrafricana in cerca di lavoro come braccianti e vanno a popolare, in mancanza di diversa sistemazione alloggiativa, siti di fortuna, com’era da considerarsi la ex baraccopoli di San Ferdinando.

L’inchiesta ha portato alla luce elementi probatori chiari in merito alla sussistenza di un sistema organizzato di sfruttamento nel lavoro dei campi di numerosi immigrati africani che faceva capo principalmente ad un soggetto di elevata caratura criminale riconducibile all’alleanza di ‘ndrangheta, un tempo esistente, Piromalli-Molè, nonché dominus effettivo dell’azienda agricola in cui lavoravano i migranti in condizioni di sfruttamento, che teneva continui contatti con i caporali e i faccendieri che operavano al suo servizio, impartendo loro direttive. L’uomo è gravemente indiziato di essere stato a capo di tale sistema, imponendo comportamenti e fornendo direttive, minacciando e punendo chi non eseguiva i suoi ordini, ben sapendo di essere temuto ed ossequiato e di potersi avvalere di una strutturata rete di collaboratori per realizzare i suoi obiettivi.

Sono stati altresì ritenuti sussistenti dal G.I.P. di Palmi gravi indizi di colpevolezza nei confronti di altri soggetti di cui l’uomo si serviva per realizzare l’attività di sfruttamento. Un caporale che gestiva per conto dell’uomo i lavoratori extracomunitari, si occupava di reclutare i braccianti africani e di controllarne il lavoro. Ad un altro uomo era  demandato il pagamento delle giornate di lavoro dei singoli operai di colore che erano impiegati nella raccolta degli agrumi, nonché il compito di guidare i furgoni a bordo dei quali venivano condotti i lavoratori nei campi. Un fedele faccendiere svolgeva l’importante ruolo di tenere i contatti con i caporali e controllare il lavoro degli extracomunitari.

Il capo dell’organizzazione  risponde anche del delitto di intestazione fittizia di beni (in concorso con la figlia indagata a piede libero) atteso che dalle indagini è emerso che l’azienda agricola intestata a quest’ultima era stata creata ad hoc per consentirgli di esercitare l’attività di impresa senza attribuirsi formalmente la titolarità della stessa. Egli invero è stato condannato per associazione mafiosa, è stato sottoposto alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno del comune di residenza ed è stato destinatario della misura di prevenzione della confisca. Non poteva pertanto essere proprietario formale di un’azienda agricola che certamente gli sarebbe stata sequestrata.

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