CARCERI E COVID-19: AMNISTIA E INDULTO SONO UNA SOLUZIONE?


  — Fonte: Poliziapenitenziaria.it —

 

Nel nostro Paese, periodicamente, si torna a parlare di amnistia ed indulto per trovare una soluzione al costante sovraffollamento. 

E’ il solito vizio italico: piuttosto che costruire le nuove carceri che servono, si fanno uscire un po’ di detenuti e, per un po’, la situazione torna alla normalità. 

Nel frattempo, non ci si preoccupa di costruire nuove case di pena e di fare riforme strutturali: dopo pochi mesi, inevitabile, tutto torna come prima e ancora una volta sentiamo parlare di amnistia ed indulto, con buona pace della certezza della pena e della sua effettività. 

Eppure, decine e decine sono stati i provvedimenti di clemenza dal Dopoguerra ad oggi. Per citarne uno, l’ultimo provvedimento di indulto, era il 2006, interessò oltre 30mila detenuti ma dopo pochi mesi buona parte rientro nelle patrie galere e tutto tornò come prima. 

Amnistia ed indulto, dunque, sono stati visti più come provvedimenti svuota-carceri per deflazionare il sovraffollamento delle carceri piuttosto che provvedimenti di clemenza. Questo perché, lo abbiamo detto, le attuali strutture penitenziarie non sono sufficienti. 

L’attuale Governo sembrava volere trovare una soluzione, nel contesto del Recovery Fund (ossia Fondo di recupero, strumento più volte richiesto dall’Italia con l’obiettivo di “arginare l’impatto devastante del coronavirus”, indicando espressamente quattro voci del sistema penitenziario nazionale cui destinare i fondi europei. 

Lo ricordò un giornalista sempre attento alle tematiche dell’esecuzione della pena come Damiano Aliprandi, che ne scrisse in un articolo apparso a settembre su Il Dubbio nel quale non risparmiò le sue critiche. 

Il Governo chiese all’Unione Europea 300 milioni di euro per la voce “Architetture per la rieducazione” con questa motivazione: «Riqualificazione del patrimonio immobiliare penitenziario mediante interventi di miglioramento della performance funzionale, in termini di aumento della capacità ricettiva dei complessi penitenziari, di lotta al sovraffollamento e di realizzazione di nuove strutture edilizie, sempre più vicine alle ordinarie strutture urbane, finalizzate all’obiettivo della rieducazione e del reinserimento sociale». 

Altri 45 milioni sono stati chiesti per i cosiddetti “lavori di pubblica utilità”, ovvero quelli non pagati e dove i detenuti decidono di lavorare a titolo volontario. 

La terza voce riguardava la prevenzione antisismica. Con una richiesta di 300 milioni, viene così motivata: «Riqualificazione del patrimonio immobiliare penitenziario mediante interventi di miglioramento della performance strutturale, in termini di mantenimento della capacità ricettiva dei complessi penitenziari, anche in situazioni critiche per la sicurezza e l’ordine pubblico (ad esempio, eventi sismici rilevanti)».

 La quarta e ultima voce è presentata con il titolo “Remote Surveillance Development”. 

La richiesta è di 60 milioni e viene spiegato che la risorsa serve per la «riqualificazione del patrimonio immobiliare penitenziario mediante interventi di miglioramento della performance funzionale, in termini di sicurezza gestionale penitenziaria interna e perimetrale. Riqualificazione professionale del personale tecnico e amministrativo interno e di Polizia Penitenziaria, prevedendone un consistente impiego nella manutenzione impiantistica delle tecnologie informatiche nella sicurezza».

In complessivo, dunque, 705 milioni: e la spesa maggiore per i penitenziari riguarda nuovamente il discorso edilizio. 

Eppure, eccepì Aliprandi nel suo articolo, nel 2019 il ministro della Giustizia ha già dato il via al cosiddetto piano carceri che consisteva nella realizzazione di nuovi penitenziari e riconvertendo in parte caserme dismesse e immobili di proprietà dello Stato. 

Il costo? Venti milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. 

Sarà ma, tenuto ovviamente conto che un carcere non si costruisce dall’oggi al domani e che devo prevedere ogni intervento utile affinché esso si attivi – a cominciare dalle assunzioni di personale di Polizia Penitenziaria e di tutte le altre professioni necessarie -, le carceri sono sempre le stesse, sovraffollate e caotiche. 

E allora si torna periodicamente a parlare di amnistia ed indulto, come è avvenuto in queste settimane in relazione al contagio da Covid che continua a crescere silenziosamente fra le mura delle carceri italiane: i dati forniti periodicamente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (alla data del 19 novembre 2020) segnala un netto aumento dei positivi, distribuiti in 76 istituti penitenziari su 190. 

Parliamo  di 827 detenuti: 778 positivi asintomatici in gestione interna, 3 positivi asintomatici nuovi giunti, 24 positivi sintomatici e 22 positivi in gestione esterna (ospedali). 

Preoccupa anche il contagio tra il personale: 79 poliziotti positivi sintomatici ed 867 positivi asintomatici, 5 unità delle Funzioni centrali positivi sintomatici e 68 asintomatici, 24 positivi tra medici e sanitari operanti negli istituti penitenziari. Proprio in queste ore è arrivata la notizia della morte del responsabile sanitario del carcere di Secondigliano, il dott. Raffaele De Iasio, da diversi giorni ricoverato nel reparto Covid dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, che purtroppo allunga a tre il numero dei deceduti per Covid-19 nelle file dell’Amministrazione Penitenziaria (due erano i poliziotti penitenziari).

Proprio in relazione alla situazione di sofferenza e di gestione della pandemia all’interno delle nostre carceri, uno schieramento composto da sindacati e associazioni legati alla tutela dei diritti dei detenuti hanno firmato una lettera al Governo e alla Commissione Giustizia di Camera e Senato, per chiedere la riduzione del numero delle persone ristrette (7.000 in più rispetto ai posti letto), la messa in sicurezza di quelle a rischio per garantire una quotidianità decorosa in questa nuova emergenza pandemica.

Le misure che propongono questo vasto ed eterogeneo cartello associazionistico (c’è persino l’associazione partigiani..) tendono a ridurre la popolazione detenuta, a mettere in sicurezza le persone sanitariamente a rischio, a rendere non rischiosa e piena di senso la vita in carcere attraverso una estensione dell’affidamento in prova e domiciliari, il ricorso ai domiciliari per chi è ritenuto non pericoloso. 

Ed ancora, maggiori licenze per i detenuti semiliberi, che rischiano con più facilità di introdurre il virus in carcere e che devono essere estese a coloro che lavorano all’esterno dell’istituto, l’estensione dei domiciliari per il residuo della pena e della liberazione per buona condotta. E, ancora, più video-chiamate, più prevenzione dei contagi ed efficienza sanitaria.

Ma c’è anche chi, per fronteggiare l’espansione del Covid in carcere, arriva a chiedere una amnistia, come ad esempio i radicali di Rita Bernardini.

Personalmente trovo scandaloso che vi siano poliziotti che trascorrono la quarantena in Caserma, quasi abbandonati da tutti…  Probabilmente, se fossero stati raccolte le grida di allarme lanciate dal SAPPE lo scorso gennaio si sarebbe potuto fronteggiare l’emergenza con i quantitativi necessari di DPI. Ed è per questo che rinnoviamo al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, anche da queste colonne, l’invito a non ritardare ulteriormente gli accertamenti doverosi ai Baschi Azzurri – quali sono i test ematici e quello del tampone – che sono fondamentali per la sicurezza sociale ma che in alcune Regioni ancora non sono stati fatti.

I poliziotti penitenziari sanno bene che la promiscuità nelle celle può favorire la diffusione delle malattie, specie quelle infettive.

 In questo senso, la dotazione al Corpo di Polizia Penitenziaria di 15mila tamponi “rapidi” da parte del Commissario straordinario per l’emergenza Covid 19, Domenico Arcuri, è un primo passo positivo, al quale però devono seguire provvedimenti contingenti come la sospensione dei colloqui visivi in luogo di quelli video, dei trasporti dei detenuti e delle visite in Ospedali esterni se non in presenza di patologie gravi e a rischio della vita. Ed è indispensabile monitorare costantemente la questione e predisporre ogni utile intervento a tutela dei poliziotti e degli altri operatori penitenziari. 

Non credo all’idea salvifica che possono avere amnistie o indulti, che ripeto servono a poco se poi non seguono riforme strutturali. Piuttosto, servirebbe un potenziamento dell’impiego di personale di Polizia Penitenziaria nell’ambito dell’area penale esterna. 

E’ noto che per il SAPPE è fondamentale potenziare i presidi di polizia sul territorio – anche negli Uffici per l’Esecuzione Penale esterna -, potenziamento assolutamente indispensabile per farsi carico dei controlli sull’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, delle ammissioni al lavoro all’esterno, degli arresti domiciliari, dei permessi premio, sui trasporti dei detenuti e sul loro piantonamento in ospedale.

Ma per farlo, servono nuove assunzioni nel Corpo di Polizia Penitenziaria ed anche nuove e più funzionali strutture detentive.

Certo è, come spesso abbiamo evidenziato, che la sicurezza dei cittadini non può essere oggetto di tagli e non può essere messa in condizione di difficoltà se non si assumono gli Agenti di Polizia Penitenziaria. 

La questione del sovraffollamento carcerario va affrontata strutturalmente, perché altrimenti si fa pagare agli italiani l’incapacità dello Stato ad affrontare e risolvere il problema. 

Non ci si deve nascondere dietro a un dito: ogni volta che viene varato un provvedimento di clemenza una percentuale non irrilevante di coloro che vengono rimessi in libertà torna a delinquere. 

E se viene meno, definitivamente, la certezza della pena non daremo un futuro al nostro Paese ed alle nuove generazioni in particolare.

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